Domenica 4 febbraio 2024, Veglia per la Vita: la testimonianza di Emanuela P.
Buonasera, questa sera condividerò con voi la mia storia. Ero una donna che amava profondamente la propria carriera e davo tutto per essa, sacrificavo ogni parte di me perché credevo che la realizzazione professionale fosse il vero scopo della vita. Ero contraria al matrimonio ma approvavo pienamente la convivenza, ero anticlericale, ritenevo che la fede fosse un inciampo per la ragione e la scienza. Frequentavo ambienti progressisti aperti a ogni tipo di diritto perché per me tutti i desideri dovevano essere tramutato in diritti. Tra questi c’era anche l’approvazione dell’aborto e ho partecipato per un certo periodo ai movimenti abortisti.
Posso dire adesso a distanza di tempo che erano due le colonne portanti della mia vita: la prima era il modernismo, cioè l’uomo che si fa Dio, che esclude Dio dalla propria vita perché si crede Dio di sé stesso; l’altra colonna invece era il relativismo, quello di scambiare il bene col male. Ecco, queste erano le due colonne che guidavano la mia vita.
È arrivato poi il giorno nel quale mi sono trovata con una persona che era in difficoltà, una donna che era rimasta incinta e non sapeva cosa fare. Allora per me quella fu la grande occasione di “salvataggio”, come la chiamavo io all’epoca, perché per me era salvare una donna dal suo destino, destino che le aveva messo davanti un bambino e che le avrebbe impedito quindi di affermarsi nella propria vita, nella propria carriera. Non ci pensai su e le dissi. «Tu devi abortire, ti aiuterò io» e quindi poi, materialmente, l’ho fatto. E mi sembrava quel giorno di aver realizzato un’opera di bene, ma in realtà da quel momento iniziai a sentire come una rottura dentro di me, un vuoto, un’ansia, una depressione. Più mi immergevo all’interno di questi pensieri impregnati di modernismo e relativismo, più sprofondavo e non riuscivo a comprendere il perché. Solo a distanza di tempo ho capito il meccanismo che si era messo in moto: una mentalità abortista e contraria alla vita crea una lacerazione nella donna.
Appoggiando la propaganda abortista, avevo iniziato a rifiutare la mia maternità e non solo quella legata all’avere figli. Stavo negando a me stessa qualcosa che andava oltre. Stavo negando quella maternità che conferisce pienezza alla femminilità, l’essenza centrale della donna secondo il progetto di Dio.
Ogni donna è madre che sa accogliere e tessere i legami della società: la famiglia, gli amici e gli affetti. La donna esercita una maternità che genera vita in ogni ambito dove opera: è un dono che conferisce senso alle relazioni, le riempie di contenuti e le custodisce.
La donna è come un’antenna nella società in grado di captare per prima una situazione difficile, una sofferenza, una fragilità grazie proprio a quella capacità emotiva e generativa che caratterizza la maternità. E quindi io con questa mentalità abortista avevo proprio rifiutato le mie radici, ero come tagliata nella mia identità: e da lì il vuoto. Con questo peso ho iniziato diciamo a sprofondare sempre di più, finché un giorno mi è arrivata una chiamata inattesa. Vi ho detto che ero una persona fortemente contraria a tutto ciò che era la fede, che era la Chiesa: mi è arrivata questa proposta di un viaggio, un pellegrinaggio a Medjugorje a cui inizialmente ho detto assolutamente di no; poi, per una serie di eventi, mi sono trovata ad andare, controvoglia. Era per fare un favore, ma in realtà il favore è stato fatto a me perché, arrivando lì, ho iniziato a dire quanto sono ignorante. Per tutti i cinque giorni di pellegrinaggio, mi ripetevo questa frase: «Sono ignorante!», nel senso che “ignoravo” veramente cosa fosse l’esperienza dell’amore di Dio! Innanzitutto, per me Dio non c’era, al massimo era un’entità astratta che stava lassù nel cielo e ogni tanto mi lanciava qualche benevolenza sulle mie cose, se mi andava bene mi faceva passare quell’esame, quel concorso, e comunque io andavo avanti per la mia vita senza considerare la presenza del Signore. Invece lì ho fatto l’esperienza concreta della Sua presenza sentendo le testimonianze di persone che portavano il mio stesso peso, ma avevano qualcosa in più che a me mancava. Dicevo: che cos’hanno loro che io non ho? La risposta pian piano si è convertita in: chi hanno conosciuto loro? È stato quel “chi hanno conosciuto” quell’esperienza di amore che sana e guarisce ogni ferita.
Da lì è iniziato tutto un percorso bello e doloroso allo stesso tempo, perché non è facile lavorare su sé stessi, ma solamente questo percorso fatto poi di sacramenti, avvicinarsi alla Parola di Dio, l’incontro con l’Eucarestia, la Santa Messa, la confessione, ha lavorato dentro di me poco alla volta finché non ho scoperto che la centralità della mia femminilità stava su una cosa che era fondamentale e che avevo ignorato per tutta la mia vita: essere figlia di Dio!
Con questa cosa si sono spalancate veramente le porte chiuse che quella cecità spirituale mi impediva di vedere. Da lì in avanti, un percorso fatto anche con incontri che il Signore ci mette davanti, i movimenti pro life: per me è stato fondamentale conoscere la teologia del corpo di San Giovanni Paolo II che pone l’attenzione sulla vera mascolinità e la vera femminilità, al di là degli inquinamenti e i falsi modelli che possiamo trovare oggi, e via via cosi facendo poi con Gianluca ci siamo sposati, perché una volta che la mia femminilità ha trovato il suo percorso giusto è stato poi spontaneo dire: «Ma questa è la mia vocazione: è il matrimonio, è la maternità, se poi ci sarà questa grazia». E poi così è stato, perché adesso in questo nuovo cammino con Gianluca il Signore ci ha donato due figli qui in terra e uno in cielo.
E il nostro cammino continua.
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