Sabato 23 dicembre, alla Casa di quartiere di Alessandria
Mancano pochi giorni al pranzo di Natale del 23 dicembre che la Diocesi di Alessandria ha organizzato insieme con la Caritas e altre realtà della nostra comunità: Sant’Egidio, comunità San Benedetto al Porto e cooperativa Company. È un momento conviviale dedicato ai più bisognosi, come ci racconta il direttore della Caritas diocesana, Giampaolo Mortara (nel tondo): «Si sono messi a disposizione tanti volontari, che verranno a darci una mano per servire e anche per stare a tavola con gli ospiti: persone bisognose, ma anche sole o in difficoltà» spiega Mortara. A cui chiediamo di darci qualche dettaglio in più.
Giampaolo, qual è il significato di questo pranzo di Natale?
«È fare compagnia a chi magari è solo e vive anche un momento della vita di particolare difficoltà».
Tu ci andrai?
«Sì certamente. Ci sarò io, ci sarà il Vescovo, monsignor Guido Gallese, insieme con una settantina di volontari. Alcuni di loro saranno impegnati nel servizio, mentre altri vivranno un momento di comunità con le persone che sono state invitate».
È un evento isolato?
«No, è un momento conclusivo di un percorso: un’occasione che vogliamo condividere anche con le persone che durante l’anno abbiamo conosciuto e che hanno fatto un pezzo di strada con noi. Sono persone che vengono nei dormitori, si presentano tutti i giorni alla mensa, vivono nelle case dell’housing sociale oppure abbiamo incrociato nei momenti di ascolto. È tutta gente che abbiamo già conosciuto e con cui abbiamo instaurato un rapporto».
Avete pensato anche ai regali?
«Abbiamo pensato anche a quelli! Ci sarà un piccolo omaggio per tutti. Come è nella tradizione natalizia».
C’è stato un momento, in passato, in cui non avete potuto festeggiare questa ricorrenza nel modo “classico”.
«Sì, è successo durante la pandemia. Per un paio d’anni abbiamo consegnato il pacco-famiglia a domicilio, costruito ad hoc con gli ingredienti per organizzare un pranzo di Natale in casa. C’era tutto l’occorrente, perché non si poteva fare diversamente. Negli anni successivi abbiamo organizzato il pranzo con un numero ristretto di persone, sempre per le limitazioni dovute al Covid-19. Quest’anno riprendiamo in maniera “allargata”. Finalmente…
Cosa c’entra la fede con questa iniziativa?
«È un discorso molto personale: io non so ogni singolo volontario come lo interpreta…».
Parti da te, allora.
«Guarda, un gesto così non basta farlo una volta all’anno, non ti scarichi la coscienza, e via. Se lo fai per farlo una volta all’anno, giusto perché è Natale e siamo tutti più buoni, non è un gesto di fede. Può essere un gesto di generosità, che prima o poi finisce».
La “ripetitività” cambia le cose?
«La ripetitività serve, perché ti ricorda innanzitutto che chi è in difficoltà lo è tutto l’anno. Chi ha dei problemi e sta passando dei momenti difficili non è che li vive solo nel periodo di Natale. I volontari che fanno questo percorso con noi hanno già vissuto altri momenti durante l’anno, e non solo per il servizio a mensa: c’è chi va a tenere compagnia agli anziani nelle case di riposo, o magari va a distribuire pacchi e vestiario. E quindi a Natale fa questo gesto perché è un collegamento con quanto vissuto in precedenza. Per gli altri, potrebbe essere un’occasione per iniziare la prima volta. E poi ripromettersi di farlo con continuità durante l’anno».
Andrea Antonuccio