Don Mario Cesario, cappellano dell’Asl Al
Don Mario Cesario (nella foto) è cappellano dell’Asl alessandrina, e in questa veste presta il suo servizio all’Hospice “Il Gelso” e nel settore dipartimento di salute mentale di Alessandria. Nel 1972 entra per la prima volta in contatto con i malati psichiatrici, in una struttura che ai tempi si chiamava ancora “Ospedale psichiatrico San Giacomo”, ad Alessandria. Da lì, la sua esperienza con queste persone sofferenti che, nonostante la chiusura dei cosiddetti “manicomi”, è andata avanti anche in questi anni. Perché quella dei malati psichiatrici è una emergenza, silenziosa e complessa, che ancora oggi fatichiamo a guardare e a comprendere.
Don Mario, quanti pazienti psichiatrici hai incrociato nella tua “carriera”?
«Non ne ho idea, sono talmente tanti che è impossibile quantificare (sorride)».
Quando hai iniziato?
«Ho cominciato il mio servizio nel giugno 1972. L’ospedale psichiatrico, allora, aveva una capienza di 1.500 pazienti, perché la province di Asti e Alessandria erano accorpate».
E poi?
«Nel 1978, con la Legge Basaglia venne decisa la chiusura degli ospedali psichiatrici. Ci sono voluti alcuni anni per poterla applicare… In quel periodo fui invitato a contattare tutte le case di riposo della nostra zona, che allora erano gestite in gran parte da religiosi, per poter inserire i nostri ammalati».
Andarono tutti?
«No, non tutti sono potuti andare nelle case di riposo. Altri sono anche finiti per strada, a dormire sotto i ponti. Qualcuno non ha retto, e si è suicidato».
Oggi queste persone come possono essere accompagnate?
«Ultimamente si è sviluppata l’assistenza domiciliare del nostro personale, ma essendo in pochi facciamo come è possibile. Io ritengo che non sia molto corretto lasciare queste persone da sole, in un appartamento. Sarebbe più opportuno che vivessero insieme, dandosi una mano reciprocamente».
Alcuni, dicevi, sono arrivati a gesti estremi.
«Sì, negli ultimi anni ci sono stati diversi suicidi di persone con problemi psichiatrici. Non riescono a vivere autonomamente, nonostante ci sia stato un grande progresso nei farmaci. Per alcuni c’è una presenza familiare, per altri no. Questa è una malattia che dà fastidio. Ci vuole tanto amore e buona volontà per affrontarla».
Cosa non funziona nella Legge Basaglia?
«Non ha funzionato, e non funziona, perché non sono state create strutture alternative. Non voglio essere polemico: in Italia si emanano delle leggi che sembrano anche buone, ma poi per mancanza di fondi la realizzazione viene compromessa».
Una soluzione?
«Intanto investire sul personale che possa seguire in modo completo chi ha bisogno di assistenza continua. Non bisogna abbandonare nessuno. Sono come i nostri bambini, non è possibile lasciarli soli per una settimana o anche solo per 24 ore. Qui non dico che sia sempre così, ma una presenza continua serve».
Altri suggerimenti?
«Sarebbe opportuno creare delle piccole strutture affinché si possano sentire protetti e vivere insieme una vita normale. Ricordo che nella casa di riposo di Bosco Marengo, una decina di anni fa, hanno aperto una micro-comunità di 15 posti. Essendo cappellano andavo a trovarli: erano molto liberi, potevano prendere l’autobus e venire in città, era una vita diversa rispetto alla vita nell’ospedale psichiatrico. Poi purtroppo negli ultimi anni la casa di riposo è fallita. Alcuni hanno trovato un’altra sistemazione, altri non so che fine abbiano fatto…».
Cosa vedi negli occhi di queste persone?
«Un’unica cosa vedo nei loro occhi: hanno bisogno di amore, di affetto. Se riesci a donarli, loro ti daranno altrettanto».
E ti parlano della loro fede?
«Tanti di loro vogliono delle benedizioni, hanno il loro modo, non tanto diverso dal nostro, di pregare. Si sentono protetti e comprendono il bisogno di spiritualità. Qualche psichiatra potrà dire: “È un modo come un altro per cercare di risolvere i loro problemi”. Invece, per alcuni, la fede e la preghiera credo possano essere importanti. Come una terapia vera e propria».
Alessandro Venticinque