I catechisti della Diocesi incontrano il Vescovo

Diocesi di Alessandria

Mercoledì 22 marzo, monsignor Guido Gallese ha incontrato un’ottantina di catechisti che svolgono il loro servizio nelle parrocchie della nostra Diocesi durante un incontro di formazione organizzato dall’Ufficio Catechistico Diocesano. La serata è stata l’occasione per ribadire l’importanza dell’evangelizzazione, sottolineando che l’esperienza essenziale della catechesi è quella di trasmettere l’esperienza di Cristo, ovvero “consegnare Cristoagli altri.

L’Iniziazione cristiana per molti ragazzi è l’unico momento in cui sentono una articolazione del mistero di Cristo e della Chiesa. Evidentemente, il luogo in cui avviene questo passaggio è segnato da salti intergenerazionali sempre più marcati. Questo non toglie, però, che ci sia un’esigenza di evangelizzare e di trasmettere la fede. Di fronte alla crisi della “consegna” della fede in famiglia, il ruolo del catechista è delicato e fondamentale.

Il nucleo centrale dell’intervento del Vescovo è stato il commento al numero 120 della Evangelii Gaudium. Il testo dell’Esortazione Apostolica di papa Francesco è riportato tra virgolette, cui segue una sintesi degli spunti di riflessione offerti da monsignor Gallese.

«In virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati».

Siamo missionari al di là della nostra formazione e del “grado di fede”. Ogni battezzato è soggetto attivo dell’evangelizzazione. Questo va contro ogni “specializzazione” della figura del catechista, dell’annunciatore.

«Questa convinzione si trasforma in un appello diretto ad ogni cristiano, perché nessuno rinunci al proprio impegno di evangelizzazione, dal momento che, se uno ha realmente fatto esperienza dell’amore di Dio che lo salva».

Questo è l’unico requisito per essere evangelizzatore: avere fatto esperienza dell’amore di Dio che salva. Questa esperienza, ha sottolineato il Vescovo, alimenta il desiderio di rifarla, di approfondirla sempre più, per essere gioiosamente cristiani. Ed è l’unico mezzo per evitare ogni rischio di moralismo, di ridurre, cioè, il cristianesimo a una “pratica morale” invece di un’esperienza personale e comunitaria della misericordia. La misericordia, cioè la gioia di essere salvato, è l’amore che Dio ha per me esattamente così come sono, peccatore. La Misericordia è l’essere amato prima ancora di cambiare, per il semplice fatto di esserci. L’esperienza della salvezza può essere descritta con un esempio: un sasso buttato nel mare non riuscirà da solo a ritornare in superficie, ma ha bisogno di una mano che lo tiri su. Analogamente, nella nostra vita, non si tratta di “toccare il fondo” per poi contare di risalire: è necessario che ci sia Qualcuno che mi venga a prendere nel punto nel quale sono. La domanda essenziale, a questo punto, è “cosa mi salva“? Cristo o un tutorial a basso costo? Cristo o una “ricetta” di vita?

«(…) non ha bisogno di molto tempo di preparazione per andare ad annunciarlo, non può attendere che gli vengano impartite molte lezioni o lunghe istruzioni».

La missione è come la reazione immediata all’incontro con Gesù, non è un progetto o una pianificazione ma il contraccolpo all’esperienza di averLo incontrato. Da questa esperienza nasce, eventualmente, la voglia, la necessità di formarsi, per dare forma, appunto, a ciò che uno già vive.

«Ogni cristiano è missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù; non diciamo più che siamo “discepoli” e “missionari”, ma che siamo sempre “discepoli-missionari”. Se non siamo convinti, guardiamo ai primi discepoli, che immediatamente dopo aver conosciuto lo sguardo di Gesù, andavano a proclamarlo pieni di gioia: «Abbiamo incontrato il Messia» (Gv 1,41). La samaritana, non appena terminato il suo dialogo con Gesù, divenne missionaria, e molti samaritani credettero in Gesù «per la parola della donna» (Gv 4,39). Anche san Paolo, a partire dal suo incontro con Gesù Cristo, «subito annunciava che Gesù è il figlio di Dio» (At 9,20)».

Non è una questione di quanti anni di formazione o quanti titoli di studio si sono conseguiti, quindi. Ad esempio, Gesù ha formato i suoi Vescovi, gli Apostoli, in tre anni. L’evangelizzazione dell’Etiopia è stata affidata ad un eunuco che avrà fatto si e no un’ora di formazione con Filippo (cf At 8, 26-40). La Samaritana ha parlato poche decine di minuti con Gesù, eppure ha convertito molti suoi concittadini. L’esempio del discorso di Paolo all’Aeropago (cf At 17, 16-34), poi, conferma questa ipotesi. È probabilmente il discorso “tecnicamente” più raffinato dell’Apostolo, quello che probabilmente ha preparato meglio, eppure non ha sortito nessun effetto (non si ricorda, nel Nuovo Testamento, nessuna “Chiesa di Atene”, ma c’è quella di Corinto…).

«E noi che cosa aspettiamo?»: provocatoriamente, il numero 120 si chiude con questa domanda. Le cose che Gesù ha fatto nelle nostre vite vanno raccontate, vanno condivise. L’esempio lampante sono forse le retractationes di Sant’Agostino. Partito dal presupposto che ciò che era accaduto nella Chiesa delle origini non potesse più riaccadere nella Chiesa del suo tempo, ogni settimana pubblicava le smentite a questa sua ipotesi, riportando così le grandi cose che accadevano nella sua Diocesi. Probabilmente è un esempio che dovremmo seguire anche noi.

Leonardo Macrobio
Direttore Ufficio Catechistico diocesano