«Era un sacerdote di altri tempi»

L’ultimo saluto a don Cesare Fossati

Mercoledì 9 dicembre il prevosto don Cesarino Fossati, parroco di Alluvioni Cambiò, Grava e Piovera è tornato alla Casa del Padre all’età di 71 anni appena compiuti. I funerali, celebrati dal Vescovo di Alessandria monsignor Guido Gallese con padre Giorgio Noè e don Paolo Favato, si sono tenuti sabato 12 nella chiesa parrocchiale di San Carlo ad Alluvioni Cambiò. Erano presenti, oltre ai sindaci di Sale, Alluvioni Piovera, Isola Sant’Antonio e Pieve del Cairo, anche tantissime persone che avevano conosciuto e apprezzato il sacerdote, che l’8 novembre scorso aveva festeggiato i suoi 40 anni di apostolato nella comunità di Alluvioni Cambiò.

«Era un prete di altri tempi, di quelli che andavano a benedire le case facendosi tutti i paesi a piedi» confida un parrocchiano di don Cesare. «Ed era anche molto legato agli anziani e agli ammalati. Un sant’uomo, faceva tutto con grande passione». Il feretro è stato tumulato in un loculo provvisorio nel cimitero di Piovera, e dal 10 gennaio riposerà nella Cappella dei preti, sempre a Piovera. Don Cesarino Fossati era nato a Nova Milanese (MI) il 15 novembre 1949. Ordinato sacerdote il 9 settembre 1978, dopo una breve parentesi come vice parroco a Castelceriolo era diventato parroco di San Carlo in Alluvioni Cambiò nel 1980, di Sant’Anna in Grava nel 1995 e di San Michele in Piovera nel 2015.

«Saluto i sindaci, i sacerdoti presenti e tutti voi in questo momento doloroso, ma sono convinto che sia anche fecondo. E questo lo dico per la fede, proprio quella che caratterizzava anche don Cesare. Venendo qua, devo confessarvi, sentivo il cuore pesante. Ma già stamattina sentivo questo peso, perché sono momenti che non vorresti mai vivere, per certi versi. Per altri versi, hai le parole di Gesù che ti si scolpiscono dentro nella loro, umanamente antipatica, durezza ma allo stesso tempo chiarezza. «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, non porta frutto». Così abbiamo ascoltato nel Vangelo che è stato appena proclamato. Ci verrebbe da dirgli: «La fai facile tu…». Poi ci fermiamo un attimo, pensiamo, perché prima di mettere in moto la lingua è sempre bene assicurarsi che il cervello sia acceso. Ci fermiamo e diciamo: «Stava parlando di se stesso». «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Stava parlando della sua morte, ma quelli che aveva di fronte non capivano le sue parole. «Chi ama la propria vita, la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo, la custodisce per la vita eterna». Uno non riesce a capire. «Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo». Seguire dove? Là, sulla croce.

«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. E poi ancora: «Se uno serve me, il Padre lo onorerà». Se tu servi il Signore sarai onorato dal Padre. «Adesso l’anima mia è turbata». Anche Gesù vive questo momento. L’anima mia è turbata di fronte alla morte del nostro fratello don Cesare. Certo, sentiamo questo turbamento del dolore e della separazione, dovuto all’affetto che portiamo nei suoi confronti e a questa riconoscenza che sentiamo come recisa dalla morte. «Che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». E quando Gesù dice questo succede una cosa stranissima: per la terza volta nel Suo Mistero, c’è una teofania, una manifestazione di Dio. Succede al Battesimo di Gesù, è successo alla trasfigurazione sul Monte Tabor, e succede anche adesso. Dall’alto una voce dal cielo che dice: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». Il punto è questo: c’è questa cosa insopportabile del Vangelo, per cui stiamo rinominando la morte in croce per tortura di Cristo, con glorificare il nome del Padre. Questa è un’operazione che a noi suscita una certa avversione, ci viene da dire: «Ma che Padre è questo: glorificato dalla morte del Figlio». Queste reazioni le abbiamo, perché purtroppo abbiamo un modo di pensare e vedere le cose che è umano. E nel nostro orizzonte umano, facciamo una fatica terribile a cogliere quello che è spirituale.

Che cos’è spirituale? Il fatto che l’opera compiuta da Gesù è straordinaria. Non solo per l’insegnamento del Figlio di Dio, che per carità è straordinario, ma se riducessimo Lui a un illuminato o a un guru sarebbe troppo poco. Non solo per l’esempio di Gesù: non solo ha insegnato ma ha messo in pratica, dandoci un esempio straordinario. Tuttavia, l’opera di Cristo è ben più grande del suo insegnamento e del suo esempio. Lui non è semplicemente un “guru-eroe”, è molto di più. Quell’opera ha una componente spirituale che non riusciamo a guardare con i nostri occhi: Gesù, amando fino alla morte e alla morte di croce, è riuscito a riscattare dalla morte spirituale tutti gli uomini di tutti i luoghi, di tutti i tempi, per permettere loro di entrare nel Paradiso. Nessuno di noi riesce a vedere questo, neanche il Vescovo. Questo orizzonte spirituale ci è del tutto estraneo, non lo vediamo, ma in realtà ci tocca profondamente.

Don Cesare, finita questa vita, finisce in un cimitero? Finisce tutto lì? Ma no, tutta la sua vita l’ha dedicata a questo, ci credeva eccome. Don Cesare entra nel Regno dei Cieli che sarà definitivo: senza più morte, senza più sofferenza, senza più malattia, senza più tenebra, senza più male, senza più lacrime. Capite che questa è la cosa più straordinaria che ci possa essere, ma nessuno di noi la può vedere? È una questione di fede. Questo possiamo vedere, com’era buono don Cesare che persona dolce, attenta, riservata, aperta e disponibile verso tutti. Questo sì, lo abbiamo potuto vedere tutti. Ma perché era così? Lui era testimone di questa vita eterna di cui vi sto parlando, e che noi non riusciamo a cogliere immediatamente. C’è un orizzonte spirituale in cui la gloria più grande è saper amare, perché l’amore è quella forza che riesce ad aprire gli orizzonti eterni del Regno di Dio. E Gesù Cristo ne ha avuto così tanto di amore da aprire gli orizzonti eterni del Regno di Dio per tutti gli uomini di tutti i luoghi, di tutti i tempi. Siamo qui a motivo dell’amore, questo è il vero punto. E l’atto che permette a questo amore di far cambiare la vita delle persone le liberi dal male e dalla morte eterna, e dia loro la possibilità di entrare nel Regno di Dio, è il sacerdozio. Quello ministeriale, che aveva don Cesare, che attiva il sacerdozio dei fedeli e di tutti i battezzati, mettendoli in grado di entrare nel Regno di Dio. Lui è stato, per queste comunità, il mediatore di una cosa che è invisibile.

Allora spero, cari fratelli e sorelle, che non vi rimanga soltanto la bella gentilezza del tratto che aveva don Cesare. Spero non vi rimanga soltanto la sua bonarietà e positività, ma che abbiate chiaro che la sua morte l’ha vissuta in modo sacerdotale per aprire a tutti le porte del Regno eterno. Quello che non abbiamo assolutamente modo di vedere finché siamo in questa vita. Ecco perché questa Celebrazione assume una connotazione meno dolorosa rispetto a quella che è umanamente. Perché sappiamo e celebriamo in questa Liturgia «un banchetto di grasse vivande», come abbiamo ascoltato nella Prima Lettura, che è l’immagine della gioia eterna. Lo diciamo prima della Comunione: «Beati gli invitati al banchetto di nozze, alla cena dell’Agnello».

Adesso noi celebriamo questa Liturgia, e portiamo nel nostro cuore, insieme ai tanti ricordi di don Cesare, la gioia di poter accedere a una dimensione bellissima: quella eterna. Sapete che è stato don Cesare a mettermi la pulce nell’orecchio per il mio incarico di Vescovo? Ero un sereno prete di Genova, un giorno mi arriva una telefonata da un numero che inizia con lo 0131: «Pronto monsignor Guido Gallese?». Rispondo: «Sì, veramente sono solo don Guido Gallese». «Volevo solo farle tanti auguri di tante cose buone, ma cose tanto belle eh». Poi dico: «Scusi ma lei chi è? Ci conosciamo?». E lui: «Sono un prete non ci conosciamo, ma magari un giorno ci incontreremo». Io non sapevo nulla, ma don Cesare evidentemente già sapeva… E fu lui il mio ángelos messaggero. Abbiamo tanti ricordi di don Cesare, della sua bontà. Li vogliamo portare all’altare tutti insieme, adesso, e chiedere di saper guardare questi orizzonti invisibili, con lo sguardo della fede. Che il Signore ci accompagni in questa Celebrazione e ci faccia respirare la dimensione eterna nella quale don Cesare continua a essere. Che la Vergine Maria ci accompagni, allora, nel cuore di questa Liturgia. Sia lodato Gesù Cristo».

† Guido Gallese

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