La guerra è bella anche se fa male?

Il #granellodisenape di Enzo Governale

Da qualche giorno in Medio Oriente c’è una nuova guerra in corso. Erdogan (nella foto qui sotto) l’ha chiamata “fonte di pace” ed è stato molto bravo a descriverne le motivazioni. Innanzitutto è partito da un coinvolgimento emotivo dello Stato turco: «Da quando è iniziata la guerra in Siria nel 2011, nessun Paese ha sentito più della Turchia il dolore della crisi umanitaria». Questa empatia è diventata patimento: «Ma a un certo punto, la Turchia ha raggiunto il suo limite». Completamente abbandonata dal resto del mondo, la Turchia «ha tratto la conclusione che la comunità internazionale non avrebbe agito, quindi abbiamo sviluppato un nostro piano […] per mettere fine alla crisi umanitaria, alla violenza e all’instabilità che sono alla radice dell’immigrazione irregolare nella nostra regione».

Una scelta alla quale non esistono alternative, perché gli altri non ci provano neanche: «Visto che sono così contrariati (gli Stati della Lega araba, ndr) dallo sforzo che la Turchia sta facendo per riunire i rifugiati siriani alle loro terre, potrebbero dichiarare: quante vittime di guerra hanno accolto loro?». Sono parole che abbiamo già sentito pronunciare da più parti in questi anni e che creano giustificazioni per l’uso della forza: come puoi dire di no davanti all’intenzione di «riunire i rifugiati siriani alle loro terre»? Parole che ascoltate con distacco fanno credere che la guerra sia bella e possa davvero portare la pace. Ma siamo sicuri che per bloccare le migrazioni dei profughi dalle zone di guerra, una “guerra alla guerra” sia la soluzione più adatta?