LA RECENSIONE
Il libro dello storico tedesco Anselm Schubert edito da Carocci
Accostandosi a ricevere la comunione riesce francamente difficile intuire che quello che la fede presenta come il Corpo di Cristo dal punto di vista materiale è pane. La forma a dischetto e il gusto che, secondo le parole di un bambino, «sembra carta» non aiutano a rendersi conto che proprio di pane si tratta. Lo storico tedesco Anselm Schubert ha voluto indagare su come in questi duemila anni il nutrimento per eccellenza della vita spirituale del cattolico è stato consegnato ai fedeli: ne è nato il libro Pasto divino (Carocci, pp 227, euro 22). All’inizio e fino al IV secolo venivano utilizzati doni portati da casa, sostituiti da cibi appositamente preparati dai sacerdoti, fra i quali birra, idromele, orzo e riso, finché il concilio di Trento (1545-1563) non pose l’esclusiva di pane e vino in un contesto nettamente separato dal pasto. Tuttavia, tali prescrizioni periodicamente vengono disattese: ad esempio, a partire dal 1835 negli Stati Uniti per ovviare al problema dell’alcolismo venne utilizzato vino non fermentato. Nel 1992 il Catechismo della Chiesa cattolica ha spiegato che i «segni essenziali del sacramento eucaristico sono il pane di grano e il vino della vite» (n° 1412). Nel 2003 il Vaticano per venire incontro ai celiaci ha autorizzato la produzione di ostie parzialmente (ma non completamente) prive di glutine.
Nel 2013 la Congregazione per la dottrina della fede dichiarò valida l’eucaristia celebrata con pane e vino realizzati con organismi geneticamente modificati. Nel 2017 la Congregazione per il culto divino ha dichiarato grave abuso inserire nelle ostie miele e frutta: se è intervenuta la Santa Sede, evidentemente da qualche parte si fa. Insomma, il libro mostra con chiarezza che è sempre difficile l’equilibrio tra fedeltà al vangelo e necessità di aggiornamento e adattamento ai tempi e ai luoghi. Nel corso dei secoli la Chiesa ha gradualmente maturato la consapevolezza che pane azzimo e vino d’uva costituiscano la materia esclusiva per il sacramento dell’altare. Ora resta l’esigenza di far sì che quei segni “parlino” anche alle persone d’oggi: per esempio, ostie più spesse e corpose, prodotte in un’abbazia francese, che utilizzano diversi sacerdoti della diocesi di Alessandria, contribuiscono a fare percepire meglio il segno del pane rispetto a dischetti sottilissimi inconsistenti al gusto, pur restando chiaramente valida la sostanza della trasformazione della sostanza del pane in quella del Corpo di Cristo al di là della forma esterna. Però è la natura stessa del segno che chiede di essere intelleggibile. Il saggio di Schubert, in forma piacevole e scorrevole, ricostruisce in modo particolare quella che il sottotitolo definisce la «storia culinaria dell’eucaristia».
Fabrizio Casazza