Sono caricati più video su YouTube in sei mesi di quanti ne producano i maggiori filmaker televisivi in sessant’anni; Facebook, si stima, diffonde un milione e mezzo di contenuti al giorno. Fra questi anche il collezionismo si ritaglia uno spaglio di tutto rispetto. Maurizio Cimmino, ad esempio, mi fa conoscere la sua pagina, chiamata con la formula “mauri più il cognome” per evitare troppi omonimi. In essa carica tutte le sue creazioni, in buona parte mobili restaurati, avuti in regalo o “messi in salvo” dal folle consumismo di oggi… Su Wikipedia si possono leggere oltre quindici milioni di articoli, tutti scritti da volontari. Il concetto si basa sulla condivisione e aggiornamento continuo delle informazioni. Il versante del collezionismo è molto sensibile a questa smania di condivisione e, anzi, l’ha trasformata, poco per volta, in una vera e propria “mania”: ci sono blog di nerd e nostalgici che scandagliano qualsiasi moda del passato, collezionisti di tutto il mondo che mostrano fieri le loro bacheche gremite e social network come “Pinterest” che offrono chicche davvero introvabili, immagini delle collezioni più impensabili… Le interviste risultano superflue perché i collezionisti top social rispondono in anticipo a tutte le domande! Ho perfino riscontrato l’inutilità di molti cataloghi cartacei, un tempo ritenuti fari imprescindibili. È meglio affidarsi alla rete perché, come avviene per le famigerate enciclopedie, riesce a garantire aggiornamenti in tempo reale sulle quotazioni (non sempre in ascesa), le varianti, offrendo materiale fotografico sempre più ad alta risoluzione e “professionale”. In rete si condividono esperienze di qualunque tipo, dall’ecologia al recupero creativo e pullulano pagine web dedicate allo scambio di cose e servizi. A cominciare dalla nota banca del tempo o delle risorse, con siti dedicati al censire e far conoscere, inizialmente in modo virtuale, i vari partecipanti, a facilitare l’incontro fra chi presta e chi riceve, ad esempio, una scala estensibile o altri costosi attrezzi. Così facendo “io dipingo la casa di Maria, lei ripara la maglia di Lina e quest’ultima cura il mio giardino”. All’estero queste cooperative spontanee sono chiamate “Lets”, acronimo che sta per “Local exchange trade system”, da noi “des” che significa “distretti di economia solidale” in cui condividere esperienze e vari saper fare (know-how). Sulla rete si sta, quindi, realizzando la Freeconomy Community, che annovera più di 40mila iscritti che si scambiano oltre 500mila competenze, 100mila attrezzature e condividono oltre 600 spazi. Ripetizioni d’inglese, due ore di dog-sitting, un passaggio all’aeroporto. Localmente il valore della condivisione è espresso dai community center “Porto Idee” (portoidee.eu) e Lab121, realtà che mette in rete spazi (ufficio condiviso) e strumenti. In effetti il coworking, che all’inizio sembrava più che altro un parolone astratto, ha già all’attivo una collezione di progetti e modelli di sviluppo. Per averne un preciso elenco basta recarsi nella sede di via Verona 17 o scrivere a “info@lab121.org”.
Mara Ferrari