Si può essere cristiani nella penisola arabica? Dipende. Si potrebbe sintetizzare così l’avvincente testimonianza che il vescovo Paul Hinder offre, insieme al giornalista Simon Biallowons, in Un vescovo in Arabia, appena pubblicato da EMI (pp 206, euro 18).
Svizzero, 76 anni, frate cappuccino, inaspettatamente nel 2003 venne chiamato da san Giovanni Paolo II a lasciare il ruolo di consigliere generale dell’Ordine residente a Roma per assumere il servizio episcopale in Medio Oriente. Dopo alcuni aggiustamenti territoriali, attualmente occupa l’ufficio di Vicario Apostolico di Arabia del Sud, risiedendo ad Abu Dhabi. È Consultore della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli e del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso.
Il presule racconta le testimonianze che quotidianamente raccoglie tra la gente in luoghi dove non è facile – e talora proibito – manifestare apertamente la propria fede, cosicché la Chiesa locale si presenta composta da immigrati asiatici per lo più giovani. Una cameriera filippina gli disse: «Quando sono in chiesa, quando prego, quando cantiamo insieme a messa. Allora è un po’ come essere a casa» (p. 23). Certamente la situazione è variegata: in Bahrein è tutto tranquillo, negli Emirati Arabi vige la libertà di culto, sebbene limitata e controllata, in Arabia Saudita è assolutamente proibita ogni religione oltre l’islam (le poche Messe celebrate saltuariamente e di nascosto nelle case vengono spacciate per feste di compleanno), in Yemen non si riesce ad entrare a causa della guerra civile.
Un ruolo centrale ce l’hanno i laici, volontari, con effettivi spazi e deleghe: «Essere preti non significa automaticamente avere maggiore competenza. Neppure nelle questioni religiose» (p. 76), afferma schiettamente monsignor Hinder, secondo il quale sarebbe bello che la positiva esperienza in questo senso dei territori arabi fecondasse l’Europa, ove il parroco rischia di ridursi a un manager della comunità e il vescovo a un direttore generale della diocesi. Tra l’altro egli afferma che mentre là il prete è circondato di rispetto, nel Vecchio Continente «quasi bisogna scusarsi di essere preti» (p. 82). La strada per recuperare freschezza nella fede dev’essere una maggiore serietà. Del resto, «Gesù non era un uomo nella media e le sue richieste non erano nella media. Gesù era esigente, e anche noi dobbiamo esserlo» (p. 93).
Per chi opera in quelle zone del Medio Oriente non può mancare il confronto con i musulmani: «la nostra fede è diventata vuota e priva di sostanza» (p. 105). Bisogna certamente evitare situazioni ambigue o potenzialmente offensive: la lectio magistralis tenuta da Benedetto XVI a Ratisbona nel 2006, secondo il libro «non è stata certo un capolavoro di diplomazia. […] che una cosa così avrebbe ferito la sensibilità di molti lo si poteva intuire anche prima» (p. 115). Però fu l’occasione per nuovi approfondimenti, che non devono peraltro cedere a un ingenuo irenismo; così il testo deplora che, ad esempio, in un incontro in Vaticano del 2008 con alcuni dignitari musulmani sia stato bandito da tavola il vino. Quindi «solo se uno rende esplicite le differenze, può attivare un dialogo profondo e dunque capire e farsi capire meglio» (p. 130), a partire ovviamente da un clima di delicatezza e rispetto. Lascerà forse di stucco la conclusione del Vescovo: «Preferisco un’Europa islamizzata a un’Europa che dimentica o, peggio, nega le sue radici religiose. Preferisco Maometto e le moschee all’ateismo e al relativismo» (p. 161).
Insomma, questo libro permette di conoscere un mondo poco conosciuto, quello del cattolicesimo arabo, permettendo di lasciarsi provocare da situazioni diverse per rileggere in chiave comparativa la realtà occidentale.
Fabrizio Casazza