La diagnostica avanzata rappresenta uno dei principali baluardi nella prevenzione del tumore alla prostata, la neoplasia maschile più frequente. Per una prima fase di screening però il test del Psa (ovvero il dosaggio ematico dell’antigene prostatico specifico) costituisce ancora il marcatore più preciso a disposizione, abbinato alla visita urologica. “L’errore del passato è stato quello di utilizzare l’esame del Psa in modo indiscriminato, mentre invece i programmi di prevenzione devono essere definiti sulla base di numerose variabili quali età, razza, familiarità con la malattia, dimensioni della prostata ed eventuali sintomi. Inoltre è molto importante che la frequenza dei controlli sia calibrata sul valore iniziale del dosaggio e sul suo andamento nel tempo”, spiega il dottor Luciano Nava, urologo e coordinatore urologia al Centro Diagnostico Italiano di Milano. “L’aumento del Psa può però essere collegato anche al semplice ingrossamento della ghiandola, connaturato con l’avanzare dell’età. Ecco perché le linee guida statunitensi consigliano di effettuare un primo test a 40 anni, un’età in cui è difficile che questa ipertrofia si sia già manifestata”. Qualora il valore del Psa dia adito a sospetti in rapporto all’età del paziente e alla tipologia di prostata e anche marcatori di supporto come l’indice di salute prostatica non offrano esiti tranquillizzanti, oggi è possibile ricorrere alla risonanza magnetica multiparametrica. Questo esame ha rivoluzionato l’approccio diagnostico alla patologia perché, se eseguito da radiologi specializzati, con apparecchiature tecnologicamente aggiornate e ad alta potenza, ha un valore predittivo negativo del 90%, ovvero l’esito negativo dell’esame corrisponde al 90% di probabilità che il paziente non abbia un tumore prostatico meritevole di diagnosi. La risonanza multiparametrica fornisce un’informazione accurata, valutando la morfologia della ghiandola e dell’eventuale lesione, l’attività metabolica delle stesse, il grado di proliferazione e di danno cellulare e le caratteristiche della lesione in termini di vascolarizzazione. Attualmente questa tecnologia viene utilizzata prima di una seconda biopsia, ma ci sono nuove evidenze che suggeriscono un suo utilizzo anche in anticipo rispetto alla prima biopsia. “Nel 2017 è stato pubblicato sulla rivista scientifica Lancet uno studio da cui emerge che la risonanza multiparametrica, se utilizzata come fattore di sbarramento iniziale prima di procedere a ulteriori approfondimenti diagnostici, in caso di esito negativo consenta di evitare il 30% di biopsie che si sarebbero rivelate inutili”, prosegue Nava. “Quest’opzione però non è standardizzabile e la scelta va effettuata secondo una valutazione del singolo caso, soppesando tutte le variabili, dall’età ai fattori di rischio del paziente, fino alla sua disponibilità di assumersi un pur se minimo rischio”. Se invece la risonanza magnetica è positiva la ricerca ha dimostrato che è possibile effettuare la biopsia solo sul nodulo evidenziato, con un’alta probabilità che sia individuata la lesione più significativa, riducendo quindi il numero di prelievi bioptici sul paziente.
Elena Correggia