L’Editoriale di Andrea Antonuccio
Care lettrici,
cari lettori,
come avrete notato dalla nostra “copertina”, questo numero non è come gli altri. L’esplosione del coronavirus (leggi anche Coronavirus, evitiamo allarmismi) ci ha suggerito di affrontare la questione non accontentandoci delle notizie che stanno diffondendo un po’ tutti (spesso esagerando e dando un mediocre contributo alla verità). Non so se ci siamo riusciti… ce lo direte voi. Personalmente vivo questa situazione con una strana tranquillità: rispetto ad altri momenti drammatici che ho vissuto in passato, oggi per la prima volta non ho paura dell’ignoto. Perché? Forse perché questo morbo “incognito”, di cui conosciamo vagamente l’origine ma che non sappiamo né come né quando finirà, ai miei occhi non è più così ignoto (e dunque ostile). Attenzione: non ne so più di voi o degli specialisti che se ne stanno occupando con grande abnegazione (li ringrazio di cuore!). Ma una cosa la so, e non me la può togliere nessuno: che tutto quello che accade è per me, per il mio bene (leggi anche L’intervista a monsignor Gallese sul coronavirus). Il coronavirus, con tutti gli stravolgimenti che comporta, mi obbliga a verificare dove sta il mio cuore e, soprattutto, a chi sto dando la vita. In questi giorni mi sono venute in mente due frasi. La prima è di San Tommaso: «La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione». La seconda, invece, è tratta da “L’Annuncio a Maria” di Paul Claudel: «Forse che il fine della vita è vivere? […] Non vivere ma morire e dare in letizia quel che abbiamo. Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna!». Che coscienza ci vuole per dire (o anche solo pensare) una cosa del genere? Non penso sia una roba da pazzi e visionari: quante persone liete ho incontrato, pur se imbrigliate nelle difficoltà e nelle tragedie dell’esistenza. Il coronavirus può insegnarci molto, della vita.
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